Non ricordo in quale contesto, se in un museo o se in una galleria, ebbi modo di vedere il “muro di valigie” di Fabio Mauri. L’opera mi colpì potentemente. Il muro è blocco, impedimento, ostruzione, ma è stato soprattutto il riferimento psicologico negativo al muro a smuovere il mio pensiero: “ con le spalle al muro”, o “messo al muro” per significare messo a morte. Ancora, Bartley il personaggio di Melville detto Signor No, che alla fine si rivolge muto al muro. O, ancora, a scuola quando ti mettono in castigo rivolto verso il muro. In segno di cecità della visione. In segno di negazione delle relazioni sociali e quindi della vita. L’opera di Mauri: Il Muro Occidentale o del Pianto, è in riferimento alla Shoah, alla vergogna dell’eccidio contro gli ebrei, e ricorda i loro averi trasportati con la valigia, quale ultima memoria di una vita. La valigia come ultimo territorio personale, come ultimo legame con un vissuto che fa da argine, muro contro la barbarie. Oltre a questo la valigia fu pure un elemento comune nella migrazione sia interna che esterna; essa portava ciò che restava del legame con un’altra vita, ed era zona franca per una nuova vita a cui erano legati i ricordi della memoria personale e collettiva. Le vie su cui correva la valigia erano le più disparate e legate al viaggio. Per lo più a piedi, in treno o in nave. Le nostre popolazioni venete hanno dato molto alle migrazioni, e a seguito della guerra nella ricerca di lavoro, come alla ricerca di rifarsi una vita in Paesi lontani. Soprattutto nella metà Ottocento verso l’Argentina e il Brasile, oppure negli Stati Uniti dove il viaggio, via mare, diventava il viaggio della vita dentro questa immensa “autostrada” acquatica (vedi Primo Carnera fra i grandi emigrati italiani).

 

 

Il Museo della Migrazione “Diogene Penzi” di Cavasso Nuovo (PN) ne fa qui testimonianza. La valigia fu altresì presa a metafora da un gruppo di pittori veneziani che vengono ben descritti dalla storica Lorena Gava nell’occasione di una mostra in Caorle a cui, parte di costoro, partecipava singolarmente: “Ecco come l’esperienza dei Pittori della Valigia diventa una parte rilevante della storia dell’arte veneziana del ‘900; stiamo parlando di una valigia di cartone abbandonata che nel 1947, quasi per caso e per gioco, viene dipinta da 27 artisti, trasformandosi così nel simbolo di un sodalizio, o meglio di un cenacolo amichevole, di pittori che assumerà il nome del Magnifico Ordine della Valigia……..i quali designano il ristorante Gorizia, in Calle dei Fabbri, a Venezia il loro punto di ritrovo e di condivisione. Fra i componenti ricordiamo Eugenio
da Venezia, Carlo Dalla Zorza, Neno Mori, Marco Novati, Fioravante Seibezzi, e Mario Varagnolo.” Pertanto quando il pittore Giampietro Cavedon mi propose una mostra, su una valigia stile “48 ore” pensai ad una valigia quale contenitore d’arte, più che trasmettitore di emozioni funzionali. Cioè pensai più a valigie come opere sull’esempio di Ben Vautier con la sua Foro Portabile, più che a valigie con decoro artistico. Molti di questi artisti: (Serafino Cesare, Simon Ostan Simone) hanno usato il decoro artistico semplicemente come valore esteriore di gusto, e quindi hanno trasposto il loro operato sull’esterno della valigia. Mentre
altri hanno elaborato la valigia come opera d’arte. Ed è il caso di Marvin (Marta Vendrame), o, di Daniele Pinni, di Andrea Vizzini, di Domenico Castaldi. Altri ancora hanno inteso la valigia come significato e quindi l’hanno usata per il trasporto di pitture, come si usava per le icone da viaggio (Marisa Milanese). O, come ironica tautologia: la valigia trasporta la rivista Arte, quindi trasporta Arte concettuale (Borisenko), o, chi rifiuta il concetto del trasporto sottolineandolo all’interno nel dire: L’Arte non è in questa valigia ! (Clara
Brasca). Altri l’hanno decorata dentro fuori riservando all’interno una decorazione più intima, da messaggio privato come nel caso di Giancarlo Caneva. La maggior parte degli artisti ha usato la decorazione pittorica al fine di riscattare l’elemento valigia quale simbolo negativo del migrante per farne invece una emozione contemporanea.
Boris Brollo